#dream
Negli ultimi mesi ho passato molto più tempo del normale con mia figlia Ginevra. In dad al 100 per 100 da ormai quattro mesi, ma che dico… facciamo anche un anno, ce ne stiamo per lo più rinchiuse dentro casa da mattina a sera. Detesto lasciarla sola, il mio lavoro è fermo ormai, arenato tra le trame del distanziamento e degli ingranaggi arrugginiti di un’economia in affanno (faccio fotografie e con il covid i servizi che mi erano richiesti sono svaniti, primi fra tutti i matrimoni). Così passo molto tempo a casa, e tutto ciò che devo fare necessariamente, come la spesa, la rimando al pomeriggio, quando può venire anche lei con me. La mattina se ne sta chiusa in camera sua, zona totalmente off-limits, ma durante le pause ci incontriamo, in corridoio, in tinello, nel mio studio, in bagno. Facciamo due chiacchiere, sgranocchiamo qualcosa insieme e così cerco di colmare in minima parte il vuoto di socializzazione che ha lasciato la didattica a distanza. Felpone nero ormai sporco di tempera da cima a fondo, pantaloncioni di pile che mandano cuori morbidi a chi le sta di fronte, due enormi pantofole a forma di fenicottero rosa, ormai un po’ flosci e stanchi pure loro, con il collo accasciato da una parte. Dentro, piedi teneri come fosse neonata, ormai disabituati al cammino, segnati dalle vesciche che le scarpe le provocano quelle rare volte che le indossa.
Amo mia figlia. In tutta questa situazione di isolamento lei non si lamenta. Non ha perso il sorriso, la speranza di tornare presto a conoscere le sue nuove compagne di scuola la motiva in qualche modo a restare serena.
Per sopravvivere a questa attesa si è però creata un rifugio, una piccola capanna immaginaria popolata di personaggi manga. Per non lasciarla ancora una volta da sola, le ho chiesto il permesso di entrare e lei me lo ha concesso di buon grado. Sono rimasta affascinata da questo mondo in 2d. Una volta si chiamavano cartoni animati giapponesi, oggi si chiamano più aulicamente anime. Mi sono buttata con lei in queste storie in maggior parte drammatiche, alcune anche molto violente, ma sempre appassionanti e disegnate magistralmente e ho scoperto, oltre alla cultura nipponica degli anime, e a qualche parola giapponese, diverse cose del mondo di mia figlia. Quasi subito ho imparato una specie di neologismo molto in auge tra gli adolescenti, la parola” “shippare“: derivato dall’inglese relationship, significa vedere bene insieme due persone, volere che si mettano insieme. Ci ho messo un po’ a capirlo, poi ne ho colto l’uso transitivo e ora mi viene naturale dire “carini quei due ragazzi, li shippo pure io!”. Negli anime che guardiamo insieme, o nei manga che leggiamo a turno, spesso queste relazioni sono tra due ragazzi di sesso maschile, e così un’altra delle cose che ho imparato è che per mia figlia, e credo per tutti i suoi coetanei, il genere e l’orientamento sessuale sono concetti fumosi e fuorvianti. Tutto è fluido. Le etichette le mettiamo noi adulti per sentirci protetti ma in realtà poi ci sappiamo muovere molto male tra questi confini rigidi e prefissati, ci facciamo tante domande inutili e perdiamo di vista il sentimento principale che anima due persone che scelgono di stare insieme: l’amore, “ai”, per dirla in giapponese. In questo rifugio colorato e in bianco e nero, i capelli mossi dal vento, ho scoperto poi che ci sono coppie fanon e coppie canon, le prime sono relazioni immaginarie create dai fan del mondo anime, le seconde invece sono relazioni ufficiali, che anche se non manifeste nel manga o nell’anime, sono state pensate originariamente anche dai creatori della storia. E quindi shippo insieme a lei coppie fanon e coppie canon di ragazzi (diremmo noi omosessuali) bellissimi, spesso ritratti fieri su nature incontaminate o città reali minuziosamente dettagliate, con capelli lunghi e abiti leggendari mossi gentilmente da un vento benevolo, tratto iconografico tipico del personaggio positivo o del vincitore. Mi innamoro insieme a lei di loro e piangiamo come due fontane quando le cose vanno storte o non proprio come vorremmo che andassero. Insomma la mia crisi dei cinquanta ha preso questa piega e per il momento la trovo divertente, anche lei, la crisi, con i capelli e i vestiti mossi dal vento.
Intanto cerco di non usare certi hashtag come #dream, perché sappiatelo, loro, gli adolescenti, si fanno grosse risate quando noi ragazzi cresciutelli dei social li usiamo, magari sotto un selfie malinconico. Chissà perché, questo ancora non l’ho capito, sarà forse perché i sogni glieli stiamo rubando, noi adulti, uno ad uno?